Posso portarmi il lavoro a casa?
- andrea prosperi
- 10 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 15 ott

L’unica dipendenza che ho sviluppato nella vita è quella dalle serie TV. Tutto sommato, mi son detto, la posso anche accettare, anzi già che ci sono potrei sfruttare tutto quel tempo passato sul divano per qualche spunto professionale.
Questo spunto me l’hanno offerto 2 capolavori, 2 serie veramente straordinarie, originali, geniali, coinvolgenti Severance (Apple) 2° stagione e The Bear (Disney) giunta alla 4° stagione .
Entrambe sono ambientate principalmente sul luogo di lavoro, la prima in una modernissima e misteriosa azienda, la Lumon; la seconda in un ristorante di Chicago, the Bear appunto.
Due mondi opposti.
La Lumon è un luogo asettico ed elegante con un design retrò e ambienti rilassanti. La caratteristica principale è però un’altra: quando si varca la soglia dell’azienda, grazie ad un impianto neurale che i dipendenti accettano di ricevere, avviene la scissione: nulla si ricorda del proprio "sé esterno" ma si conservano tutte le competenze e le caratteristiche personali. Al contrario uscendo si perde completamente la conoscenza di ciò che succede all’interno dell’azienda e ci si riappropria del proprio "sé esterno". In questo modo certamente non c’è invasione della sfera personale da parte di quella professionale e al tempo stesso non si portano ansie e nevrosi della vita personale sul luogo di lavoro. Di certo nessuno dei dipendenti della Lumon si porta a casa il lavoro. Cosa produce l’azienda? Un mistero. A cosa serve il lavoro del singolo dipendente? Altro mistero. Però ci sono una serie di piccole amenità e riconoscimenti che “ingentiliscono” l’esperienza lavorativa alla Lumon.
Il ristorante è un luogo in cui si intrecciano visceralmente le personalità, la aspirazioni, le nevrosi dei personaggi. Il luogo di lavoro, oltre a costituire una spettacolare ambientazione è un personaggio esso stesso. Si evolve, da panineria di quartiere a ristorante eccellente. Allo stesso modo i personaggi attraversano un arco narrativo di evoluzione e compimento. Ognuno di loro si compie in maniera inaspettata trasformando un staff di underdog nevrotici e improvvisati, in una squadra di lavoro coesa e dalle performances eccellenti. Tutto questo avviene nel “corpo a corpo”, nella sovrapposizione fatta inizialmente di urla ed insulti e successivamente di istruzione sintetiche e precise. A facilitare questo cambiamento uno cheff Carmine “Bear” Berzatto, che potrebbe essere eletto campione di humble leadership, mai sul palcoscenico, sempre pronto a metterci i propri collaboratori.
Il personaggio che meglio rappresenta questo viaggio dell’eroe è quello di Richard "Richie" Jerimovich, il responsabile di sala di The Bear. Nella prima stagione è un cinico, disilluso, sociopatico, incline all’ira e vittima del suo stesso sarcasmo caustico. Il collega che nessuno vorrebbe avere, scomodo e improduttivo. Nell’ultima stagione è un trascinatore entusiasta, capace, col proprio zelo, di trasformare una cena al the bear in un'esperienza unica. Cosa succede a questo personaggio? la sua evoluzione è sintetizzata in un singolo episodio, (“forchette”, E7, S2) che vi consiglio di vedere anche se non avete voglia di guardare la serie. In quell’episodio il personaggio di Richie si accende e inizia a brillare di luce propria, tutto avviene grazie alla sua frequentazione di un ristorante super stellato, svolge uno stage in cui di base lucida forchette, ma per la prima volta coglie realmente il nesso tra le attività, anche le più umili, e l’esperienza del cliente.
Qual è l’ambiente di lavoro giusto? Asettico e poco invadente? Conflittuale e creativo?
Chi si affaccia oggi al lavoro richiede certamente un rispetto della propria sfera privata ma al contempo cerca un lavoro con un senso e la possibilità di “compiersi” professionalmente e personalmente.
Quindi una risposta io non ce l’ho ma se guardate le due serie fino in fondo…



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